Psicologi dietro le sbarre: quando la psicologia incontra il carcere

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…e credo che il carcere debba essere un luogo di rieducazione e avere, dunque, le caratteristiche delle istituzioni educative, attente a tirar fuori dallo studente ogni elemento che gli permetta di diventare più utile alla società. Il carcere come camicia di forza, come immobilità per non far del male è pura follia, è antieducativo. Non appena viene tolto il gesso, c’è subito una voglia di correre e di correre contro la legge. Senza considerare l’assurdo di un luogo dove si accumula la criminalità, che ha un potere endemico maggiore di un virus influenzale.” (Vittorino Andreoli, psichiatra e scrittore)

Che sia al telegiornale o in una conversazione tra colleghi, amici o conoscenti, sentiamo spesso parlare di carcere: se ci pensiamo bene, ogni sera la televisione accompagna la nostra cena con notizie di cronaca nera, femminicidi, ingiustizie, tragedie familiari, dibattiti politici sulle riforme della giustizia. 

Ma il carcere non è fatto solo di sbarre: oltre ai detenuti, ci “abitano” anche gli agenti di polizia penitenziaria, che svolgono un lavoro complesso e indispensabile, e forse alcuni non sanno che tra le figure che lavorano dietro le sbarre c’è anche lo psicologo. Ma che cosa fa uno psicologo all’interno di un carcere, e perché è importante la sua figura? 

Partiamo da un assunto molto semplice che riguarda la nostra Costituzione: l’articolo 27 stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In altre parole, non ci si può “vendicare” su colui che ha commesso il reato, né trattandolo in modo disumano né gettando via la chiave: quando un detenuto finirà di scontare la pena sarà nuovamente libero e verrà reintrodotto nella società. Ed è proprio qui che entra in gioco lo psicologo. 

Come prevede l’Ordinamento Penitenziario (L. 374/75), il ruolo dello psicologo in carcere è quello, tra gli altri, dell’osservazione e del trattamento dei detenuti: ciò significa prevenzionecura e sostegno del disagio psichico e sociale da un lato, ed interventi psicologici volti a stimolare nel detenuto un processo di cambiamento e consapevolezza del reato e di riduzione del rischio di recidiva dall’altro. 

Se il detenuto non viene accompagnato in questo percorso, e quindi non viene messo nelle condizioni di comprendere non solo perché ha commesso quel reato, ma soprattutto quali sono state le conseguenze più tragiche ai danni della/e vittima/e, il carcere sarà sempre e solo una scuola di criminalità. 

Solitamente tendiamo a dimenticarci di questo contesto, il carcere, che sembra ormai talmente lontano fino ad essere diventato una sorta di contenitore in cui non solo buttare dentro chiunque sia “scomodo” per la società (non si parla qui solo di detenuti, anche di malati mentali), ma che possa essere così facilmente tappato e lasciato lì, privo di risorse, anche economiche. 

Un libero cittadino si domanda però perché i soldi della sua busta paga dovrebbero essere spesi per qualcuno che ha commesso un crimine? La risposta è da un lato molto semplice e dall’altro molto scomoda: perché, come dicevamo sopra, il detenuto che avrà finito di scontare la pena tornerà ad essere egli stesso un libero cittadino. Ma se all’interno del carcere vi sono pochi operatori che lavorano con i detenuti affinché quest’ultimi acquisiscano consapevolezza rispetto al reato e intraprendano un percorso di responsabilizzazione e di “revisione critica del passato deviante” (Ordinamento Penitenziario), il rischio di recidiva per chi torna libero è davvero molto alto, e chi ne paga il prezzo più alto e le peggiori conseguenze è la stessa comunità, che non si sente sicura né tutelata. 

Un altro motivo per cui lo psicologo risulta una figura fondamentale all’interno degli istituti penitenziari riguarda non solo il lavoro psicologico con i detenuti, ma anche di promozione del benessere e di prevenzione del burnout e del tasso suicidario nella polizia penitenziaria, che viene ogni giorno a contatto con un’utenza, i detenuti, molto particolare, e molto spesso arrabbiata, frustrata, malata. 

Perché quindi investire, sia economicamente che nella formazione del personale, nel contesto penitenziario? La figura dello psicologo è davvero così importante? Anche se all’apparenza può non sembrare, chi beneficia di più di questo tipo di interventi non è altro che la comunità, composta da voi, i vostri amici, familiari e conoscenti, proprio quelli con cui qualche volta, davanti a un calice di vino o a un bicchiere di birra, si parla di ingiustizia e carcere. 

Autore: Giulia Schioppetto
Codice Sygmund: GIUSCH-S04

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