Che nesso c’è tra le emozioni e la leadership efficace?
E’ possibile guidare se stessi e gli altri, pensando di ignorare le dinamiche interne dell’anima ?
In questo articolo parleremo di come le emozioni siano una componente basilare dell’individuo e di come essa svolga un ruolo importante nella relazione in genere e nello specifico tra leader e follower.
“La maggior parte della pubblicità non fa tanto appello alla ragione quanto all’emozione.”
Erich Fromm (psicoanalista e sociologo)
1 – Leadership: comunicare bene, è sufficiente?
La prima cosa che ci viene in mente parlando della leadership, è la capacità di guidare se stessi ed i nostri collaboratori dopo aver stilato una scala di priorità, grazie alle quali scaturiranno le linee guida che permetteranno di raggiungere gli obiettivi prefissati, rispettando nel contempo il budget economico messo a disposizione.
Negli ultimi anni, inoltre, ha preso piede la consapevolezza che per raggiungere obiettivi sempre più stringenti è necessario che l’ambiente lavorativo sia pervaso da entusiasmo e per fare ciò è necessario fornire al proprio team delle motivazioni.
Ma al centro di questa visione, aggiungiamo noi, ci sono persone che si relazionano gli uni con gli altri comunicando.
Concretamente, come avviene questo scambio di contenuti ?
Il primo mezzo che ci viene in mente é la parola.
La parola é un “ponte”, un tramite, che permette il passaggio di informazioni da una persona all’altra,
Etimologicamente, comunicare deriva dal latino “commūnĭcāre”, che a sua volta deriva da “cŭm” insieme a, con, contemporaneamente a, e da “mœnīre” che tra i vari significati include anche, rendere accessibile ed aprire.
Pertanto comunicare in senso più ampio, significa ad aprire il proprio mondo agli altri, a condividere le idee, scambiare pareri e nel nostro caso, coinvolgere i collaboratori sia nella fase che precede le scelte che poi nel debriefing, quando arriva il momento di tirare le somme e valutare i risultati raggiunti.
Ma per comunicare, non basta, né tantomeno è sufficiente, conoscere bene una lingua e l’arte del saper parlare in pubblico e scopo di questo articolo è andare in cerca di quei presupposti a priori, che rendano la comunicazione verbale veramente chiara ed efficace od in altre parole, essere ragionevolmente sicuri si il che il messaggio sia stato realmente compreso dal nostro interlocutore.
“Il problema principale della comunicazione é dare per scontato che essa sia realmente avvenuta”.
George Bernard Shaw
Come l’esperienza ci insegna, seppur siamo in possesso di una buona cultura ed abbiamo frequentato dei corsi di formazione, la conversazione basata sul linguaggio continua ad essere caratterizzata da incomprensioni, equivoci e fraintendimenti di vario tipo.
Pensiamo per esempio quanta letteratura fonda la sua esistenza sul cosiddetto “qui pro quo” e di come la trama della storia verta intorno alla risoluzione dei malintesi e quindi al chiarimento finale tra i protagonisti.
Il motivo di ciò risiede nel fatto che l’approccio che si focalizza prevalentemente sul contenuto e sulla modalità delle informazioni da scambiare, parte dal presupposto che essa è una questione che coinvolge aspetti semantici, sintattici o grammaticali.
Ma il dialogo tra le persone avviene anche su un livello differente, che come vedremo, ha un’importanza tutt’altro che trascurabile.
E’ quella che si rivolge non tanto all’aspetto logico/razionale della mente, ma a quella parte del mondo interiore dell’individuo, fatto di emozioni e sentimenti.
2 – La comunicazione non verbale
Questo aspetto merita a nostro avviso di essere preso in maggior considerazione.
Sul posto di lavoro, almeno ufficialmente, non c’è spazio per le emozioni, mentre nello sport, questa presa di coscienza ha fatto capolino già da tempo, perché qui più che in altri ambienti, é risultato evidente che solo dall’emozione può scaturire quel qualcosa in più che renda possibile una prestazione eccezionale, oppure, quella resistenza senza la quale, non si potrebbero superare allenamenti durissimi.
Siccome il timore è che le emozioni possano intaccare la prestazione lavorativa del singolo o che, turbando la sensibilità altrui, finiscano per influenzare il rendimento dei colleghi, esse di norma, vengono ignorate o tutt’al più, ritenute lecite solo all’interno di ambiti ben delineati, come le ricorrenze, il raggiungimento di obiettivi particolarmente ambiziosi o al contrario, quando la situazione congiunturale è complicata e bisogna richiamare il gruppo a fare dei sacrifici.
Ma che ne siamo consapevoli o meno, esse sono un ingrediente fondamentale della nostra esperienza e che fanno capolino in ogni circostanza della nostra vita.
Anche quella lavorativa.
Pensare di ignorarle con l’intento di renderle inoffensive é inutile, anzi quando ciò accade, esse operano dentro di noi come la lava incandescente che scava le gallerie nelle profondità della terra e si trasformano in quelle che secondo alcuni studiosi, sarebbero le cause delle malattie psicosomatiche.
Ma prima o poi esse manifestano la loro azione e più tardi questo accade, più lo faranno in maniera eclatante e talvolta esplosiva.
Pensiamo per esempio ad un attacco di rabbia o più semplicemente ad una crisi di pianto causata da un sentimento di dolore troppo a lungo represso.
Sono perennemente presenti e benché agli occhi di molti non appaiano visibili, per coloro che invece hanno occhi per vedere, orecchie per sentire ed un cuore per comprendere, la loro manifestazione appare evidente.
Anzi, per certi versi, lo fanno in maniera “assordante”.
“Noi gridiamo quello che siamo.”
Uno degli assunti fondamentali della psicologia junghiana.
Da queste premesse comprendiamo il motivo perché in alcune circostanze ed in particolare sul luogo di lavoro, vengano viste con un certo sospetto, in quanto rivelerebbero il nostro stato interiore più autentico che, grazie alla timidezza, al rispetto delle convenzioni dettate dall’educazione oppure dalla convenienza, resta celato.
Pensiamo per esempio al caso in cui esse lasciassero trapelare il disappunto per le scelte fatte dal capo, o più semplicemente, quando sono spie rivelatrici di emozioni distruttive latenti come l’aggressività e quindi, potrebbero mettere a rischio l’integrità del gruppo.
Secondo alcuni, le emozioni in fabbrica od in ufficio, sarebbero apportatrici di confusione che generano inefficienze, ostacoli alla comprensione reciproca ed allo svolgimento ordinato dei compiti da eseguire, mentre come vedremo più avanti, andrebbero interpretate come la spia di un malessere, di un problema o di un conflitto, sia personale che di gruppo e noi, similmente a quando sul cruscotto della nostra automobile si accendesse una spia di allarme, invece di prenderle in seria considerazione, decidessimo di ignorarla.
A complicare il quadro, interviene, la concezione dicotomica che caratterizza tutt’ora il pensiero occidentale, il quale divide in maniera spesso tranchant i fenomeni in “bene o male”, “buoni o cattivi”, “favorevoli od ostili”, che ha fatto si che si creasse nei tempi passati tra i filosofi, una netta distinzione tra l’attività meccanica del corpo e l’attività intellettuale del pensiero, ignorando o trascurando invece, il cosiddetto “convitato di pietra”, cioè l’universo delle emozioni, riservandole non solo un ruolo secondario ma ritenendole in alcuni casi, il vero nemico del pensiero logico/razionale.
Per molti secoli, infatti, la sfera delle emozioni è stata confinata al mondo spensierato dei bambini od al più tollerato con benevola indulgenza quando riguardavano il genere femminile.
Per il resto veniva relegato alla ristretta cerchia di poeti ed artisti.
Questa dialettica filosofica era più che comprensibile in passato, in quanto nasceva dalla necessità di placare le ansie del vivere quotidiano accentuate dall’arretratezza del sapere scientifico e dove, le malattie e le guerre, contribuivano a rendere la vita ancora più insicura ed incerta.
3 – La palestra delle emozioni
Ora, quand’è che le emozioni cominciano a manifestarsi e a svilupparsi dentro di noi ?
Tutto ha inizio quando tra la madre ed il figlio appena nato, si instaura un’intesa basata non sul linguaggio verbale ma sullo scambio di sorrisi, occhiate e mugolii di vario tipo, che a loro volta, non sono altro che il mezzo con il quale le emozioni vengono manifestate all’esterno.
Esse sono di vario tipo e vanno per esempio, dalla manifestazione del piacere di rivedersi, il desiderio di ricercare un contatto visivo, il bisogno di mangiare, il compiacimento quando questo piacere viene soddisfatto, e così via.
E’ questa la prima forma di comunicazione tra individui ed é a tal punto universale che, quando un piccolo, nato e cresciuto per un certo periodo di tempo in un paese se, prima dell’instaurarsi della relazione verbale, viene adottato in un’altra nazione, tra la nuova madre ed il bambino si crea egualmente un affiatamento.
Cogliamo l’occasione per far notare che un modo diverso per veicolare sentimenti ed emozioni é la musica, la quale, facendo appello proprio al linguaggio primordiale di cui stiamo parlando, viene compresa in qualunque parte del mondo, anche ed indipendentemente dall’epoca in cui é stata composta o dal paese di provenienza dell’autore.
Amore, odio, attrazione, repulsione, piacere, disgusto, compiacimento, disprezzo, ammirazione, fastidio, stupore, terrore, serenità, rabbia, delirio di onnipotenza, senso di frustrante solitudine, pace, serenità, compassione, calma, nervosismo, comprensione, giudizio, attrazione, repulsione, desiderio di unione, vengono vissute da ciascuno di noi come vibrazioni che si propagano all’interno e tramite le espressioni del viso ed il linguaggio del corpo, vengono trasmesse e captate da chi ci sta di fronte, innanzitutto a livello inconscio.
Emozioni che possono essere comprese solo da chi é capace di empatia, ovvero, da chi é in grado di sintonizzarsi con il mondo interiore altrui.
Dovremmo soffermarci un po’ su questa dote assai importante.
Quale ?
La incontreremo nella seconda parte
Autore: Massimo Biecher
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1 commento su “Leadership ed emozioni – Parte 1”
Frasi semplici e facilmente comprensibili. Complimenti Massimo