Questo articolo ha l’obiettivo di condividere ed immortalare il caso di una paziente oncologica che chiamerò Arianna che ho personalmente seguito per tre anni presso l’ambulatorio di Psico- Oncologia di un noto ospedale di Roma.
Ricordo come se fosse ieri, il messaggio da parte del marito di Arianna, nel quale mi comunicò la morte della paziente e mi ringraziò.
In un attimo, quando appresi la notizia, la mia mente era un susseguirsi di immagini, alcune piacevoli altre meno, un insieme di frammenti dei tre anni vissuti insieme alla paziente: il primo incontro, il suo sorriso, le lacrime versate, il modo in cui apriva la porta della stanza-colloqui, i dettagli della cucina e della camera da letto quando si collegava tramite Skype, i momenti di silenzio, l’agendina che mi regalò, il suo essere invadente, le email che mi scrisse per rendermi partecipe del suo dolore.
Era l’Aprile del 2018 quando il collega che mi inviò la paziente mi disse sin da subito che si trattava di un caso difficile in quanto la paziente presentava una prognosi sfavorevole avendo due tumori, di cui uno in stato metastatico. La domanda che mi posi era se fossi stata all’altezza come terapeuta a seguire tale paziente: una parte di me non vedeva l’ora di incontrarla, ero molto incuriosita e fantasticavo il primo incontro; ero entusiasta, ma allo stesso tempo intimidita.
Il giorno del nostro primo incontro la paziente arrivò in seduta puntualissima. Inizialmente, non sembrava una persona che stesse male ma in seguito osservandola attentamente mi accorsi che il suo volto era pallido con occhiaie in evidenza, non aveva un filo di trucco ed aveva un “sorriso a 32 denti”. Si presentò con una parrucca in testa, i capelli della parrucca erano castani con taglio a caschetto, scalati in avanti. Era vestita in modo classico e semplice: camicia a righe nere e bianche e sneakers ai piedi. La mia prima impressione fu di una persona molto educata, gentile e dolce.
Secondo Ferruta (1995), “ogni incontro che avviene in un contesto che vede presenti l’attesa inconscia di una mano e la spinta interiore a andare verso uno sconosciuto è unico, se riesce a toccare il nucleo inconscio di solitudine e di socialità collocato al centro di ognuno”. La psicoanalista aveva individuato, rappresentata in un quadro “TEN AM IS WHEN YOU COME TO ME” di Louise Bourgeois esposto alla Tate Gallery, la tensione dinamica del primo incontro fra i due soggetti in una situazione di cura (fig. 1).
Fig. 1 – Louise Bourgeois “TEN AM IS WHEN YOU COME TO ME”
Quest’opera è articolata in 20 fogli per la trascrizione della musica che raffigurano le mani dell’artista e del suo assistente Jerry Gorovoy. Le mani dell’artista indossano un anello all’anulare. Il primo foglio rappresenta un orologio con le lancette alle ore 10:00, composte dalle figure nude di un uomo come minuti e di una donna come ore. Il titolo ‘10 am is When You Come to Me’ si riferisce all’ora in cui Jerry arrivava nel suo studio a lavorare con lei, salvandola letteralmente dal precipitare nel vuoto e nel buio e a riprendere invece una consuetudine affidabile di dipendenza e supporto (Ferruta, 2013).
Durante un confronto con il mio supervisore, emerse che il movimento immaginario dei due personaggi dell’opera è tale che, col procedere del tempo, la figura maschile (il terapista?), incontra di nuovo, ad ogni ora, la figura femminile (la paziente?) sospingendola da una posizione di rischio di caduta ad una posizione eretta (dalle ore 10:00 alle 12:00). Quindi, con le parole della Ferruta, “a riprendere una consuetudine affidabile di dipendenza e supporto” in cui la lancetta delle ore corrisponde alla posizione della lancetta dei minuti e le due figure si trovano entrambe in piedi ed accanto. Da una posizione 1 (uno) 0 (zero) iniziale ad una posizione 1 (uno) 2 (due) in cui si è costituita la coppia analitica.
All’inizio della seduta Arianna apparve in stato euforico, in seguito la sua euforia si spense quando iniziò ad informarmi del momento in cui apprese di avere il cancro al seno: era inverno e scoprì dopo ulteriori esami di avere anche delle metastasi al fegato.
Mi raccontò di come, tornata da una vacanza, si accorse che il seno aveva assunto una forma strana; il marito, preoccupatosi, la portò in ospedale per degli accertamenti.
Durante il racconto sottolineò che, dopo aver appreso di avere un tumore al seno, i medici le comunicarono che per ben cinque anni doveva stare in stand-by rispetto ad un’eventuale gravidanza. La paziente spiegò che venne a conoscenza del tumore, nel momento in cui dopo tre anni di matrimonio aveva deciso con il marito di avere un figlio. Apparì profondamente scossa, parlava con la voce spezzata e singhiozzava nel raccontare di come il marito amava i bambini e li desiderava fortemente, aggiunse che anche a lei piacevano tanto.
Arianna riferì di essere dispiaciuta per aver deluso le aspettative che i suoceri e i genitori riponevano in lei, desideravano dei nipotini, in quanto non li avevano avuti dalle altre figlie.
Inizialmente, non ebbe il coraggio di comunicare ai propri genitori ed ai suoceri di avere un tumore in quanto voleva proteggerli dalla spiacevole notizia.
Nei mesi successivi tra un ciclo di chemio e l’altro, la paziente con il supporto del marito comunicò ai familiari della malattia.
Con tono rabbioso riferì che la suocera la trattò come se avesse un’influenza, dicendole: “quando ‘guarirai’ mi farete un nipotino?”. Ella soffrì molto per questa affermazione, in quanto sin dall’inizio fu consapevole che per la condizione di salute attuale non poteva avere figli. Arianna, in quell’occasione condivise l’idea che non sarebbe stato giusto avere un figlio o adottarlo in quanto a causa della malattia non sarebbe riuscita a prendersi cura di un bambino o, addirittura, a causa della “propria morte” il bimbo sarebbe cresciuto solo con il padre.
Durante tale seduta pianse molto, ricordo che aveva un fazzoletto di stoffa in mano con il quale si asciugava le lacrime, mi raccontò del soggiorno trascorso con gli amici al Nord: una delle sue amiche (quelle del gruppo storico) le comunicò di essere incinta di un maschio e di come con il marito fantasticavano nell’avere una famiglia numerosa e di quanto lei desiderasse un figlio maschio. Era molto addolorata in quanto l’unica coppia della comitiva di amici a non avere figli erano loro, ciò che la destabilizzava maggiormente era il sesso maschile dei bambini in quanto lei e il marito desideravano un figlio maschio. Inoltre, Arianna notò che spesso gli amici evitavano di parlare di bambini in loro presenza per paura di ferirli.
La paziente verbalizzò che provava un forte senso di colpa nei confronti del marito perché non gli poteva dare un figlio e riferì che ultimamente il marito era diventato favorevole all’adozione (nonostante prima fosse contrario). Lei era riluttante all’idea di adottare un bambino, in quanto desiderosa di capire quanto gli restava da vivere e come avrebbe vissuto gli ultimi anni.
Secondo la visione di Arianna, l’adozione era un atto egoistico. La donna era afflitta ma al contempo desiderosa di programmare gli ultimi anni della sua vita; infatti progettò dei viaggi nonostante fosse parzialmente consapevole che molti progetti non avrebbero avuto buon fine.
Durante il percorso psicologico i contenuti trattati riguardarono prevalentemente il modo di vivere la propria sessualità e il rapporto di coppia.
La pz si sentiva profondamente trascurata dal marito, il quale trascorreva molto tempo a lavoro e con il quale non aveva rapporti sessuali da tanti mesi. La causa della mancanza di rapporti intimi, Arianna la attribuì sia ai farmaci che stava assumendo che inibivano la libido, sia al fatto che lei e il marito riuscivano a trovare momenti di intimità esclusivamente durante i viaggi e le vacanze fuori Roma.
Di Loreto (2015) sostiene che la donna vive la propria infertilità come un vero e proprio lutto, cade in una profonda crisi esistenziale non solo a livello individuale, ma anche nella relazione di coppia e nei rapporti sociali.
Questo lutto particolare si esprime attraverso sentimenti di rabbia, risentimento, angoscia, vissuti di perdita e tradimento degli ideali e dei progetti: sfiducia nel futuro, senso di colpa verso il partner e paura di perderlo, rimpianti per le scelte di vita precedenti (rimandare la decisione di procreare),
difficoltà nei rapporti intimi, disagio nelle relazioni con le coppie con figli, imbarazzo e tristezza a rispondere a domande riguardanti il futuro familiare.
Spesso mi raccontava delle cene con coppie di amici con figli, mi colpì profondamente una cena nella quale una sua amica che era presente durante questa cena, era molto irritata rispetto al fatto che il figlio piangesse. Mentre li osservava, Arianna raccontò di aver pensato tra sé e sé: “perché lei ha un figlio ed io no?” Aggiunse con tono giudicante nei confronti dell’amica che lei era una donna non impacciata con i bambini e molto informata rispetto a questi, rivolgendosi a sé stessa riferisce che sarebbe stata un’ottima madre. Ricordo che pianse molto e ammise di provare invidia nei confronti delle amiche.
Le rimandai la normalità di sentirsi triste ed arrabbiata, dispiaciuta di qualcosa che si desira e non si può avere, aggiunsi che in quel caso anche provare invidia era normale.
Feci la fantasia di trovarmi di fronte ad una paziente che sperimentava un forte sentimento di invidia nei confronti delle donne che potevano procreare.
La paziente sperimentava vissuti di invidia e vergogna celati da un’apparente iper-valutazione del sé.
Alcuni colleghi durante una supervisione di gruppo, seguendo la visione di Freud, ipotizzarono che io potessi essere percepita come un Doppio per la paziente, rispetto al tema della procreazione. Arianna era una giovane ragazza con un marito ma non poteva procreare ed avere figli a causa del cancro. A loro avviso, io sono stata per la mia paziente una coetanea con un compagno, senza cancro, che aveva la possibilità di concepire un figlio: per i miei colleghi rappresentavo quella figura in grado di concretizzare il desiderio di maternità della mia paziente.
Nel corso della stessa supervisione, emerse il disconoscimento come meccanismo di difesa utilizzato da entrambe: i medici durante le svariate visite oncologiche rimandarono alla pz che avrebbero tentato delle terapie farmacologiche, ma non diedero mai certezze rispetto alla riuscita delle stesse. Con la diagnosi e la prognosi che Arianna presentava, era quasi certo che i tumori sarebbero avanzati ad uno stadio che conducevano alla morte.
Il mio supervisore mi disse che la vera pesantezza e complessità nel seguire Arianna è stata che sia io in quanto terapeuta che lei in quanto pz abbiamo fatto di tutto per non accorgerci che la diagnosi annunciava la morte. In quanto terapeuta ho colluso e giocato con la paziente in modo tale da accompagnarla in un percorso di terapia “facendo finta di non sapere”, nonostante il risultato finale risultava un’utopia ovvero guarire ed avere un figlio. Convenimmo che, sin dall’inizio, il pianto della pz era suscitato dalla consapevolezza che sarebbe morta senza avere avuto un figlio. Figlio che avrebbe potuto concepire appena sposata quando stava in salute ma non lo aveva fatto, ignara di ciò che le sarebbe successo.
Rispetto alle fantasie della coppia ciò che emerse, in particolar modo rispetto al fantasticare un’adozione, fu che io mi adoperai per anni per farle compagnia seguendola anche in percorsi che erano delle fantasie (nessun tribunale avrebbe mai affidato un minore ad una donna metastatica ed incurabile): per la coppia e per la pz “fantasticare” rispondeva ad un loro bisogno di trovare qualcosa che li unisse e che li facesse rimanere uniti in questa battaglia contro il cancro sentendosi attori e non vittime di un destino avverso.
La domanda che costellava la mia mente dopo la morte di quest’ultima era la seguente:
“cosa ho fatto per la paziente?”
Il mio supervisore mi raccontò di un vecchio rituale: i popoli antichi camminavano molto, quando camminavano si impolveravano le scarpe, allora per dimezzare la fatica questi uomini pulivano le scarpe, toglievano la polvere che secondo loro portava via con sé tutta la loro fatica, e così riprendevano a camminare.
Questo per farmi capire che quando racconti qualcosa a qualcuno è come se togliessi la polvere dalle scarpe, dai all’altro, in questo particolare caso ai supervisori ed al gruppo dei Colleghi, la polvere ovvero la fatica e viene trasferita l’emozione che si sta vivendo in quel momento.
Il mio supervisore mi rimandò che io ho respirato la polvere della paziente e per mezzo del supporto che ho ricevuto dal gruppo di supervisione, la paziente è stata meglio, ha ritrovato la forza e si è rimessa a camminare: in quanto terapeuta ho curato, stando nel dolore in silenzio.
Sperimentai un senso di liberazione misto a gioia, i miei dubbi svanirono, ciò mi permise già a partire dall’indomani di ritornare a lavorare serenamente.
Di Loreto, C. (2015). Sessualità e Cancro. Roma, La Collana del girasole n°10. Ferruta. A. (1995). Protos Monos. Il primo incontro con il paziente in un’istituzione curante. Psiche, 2, 3, 167-183.
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Verrai messo in contatto con la Dott.ssa Erika Lucia Benedetto, autrice dell’articolo e psicoterapeuta specializzata in supporto psicologico ai pazienti oncologici e ai loro familiari, elaborazione del lutto , depressione, disturbi d'ansia, attacchi di panico, fobie, disturbo ossessivo-compulsivo, dipendenze (affettive, da sostanze, Gap etc.), problemi di coppia, supporto alla genitorialità e parent-training, difficoltà riscontrate in contesti lavorativi : sindrome Burnout, benessere psicosociale, strategie di coping e soddisfazione di vita, disturbi di personalità disturbi del comportamento (coping power), disturbi dello spettro autistico, disabilità e sessualità, disforia di genere.